ACEs: Esperienze Sfavorevoli Infantili e loro influenza sullo sviluppo neurofisiologico-cognitivo ed emozionale

AIAS di Milano Onlus ha organizzato il 18 ottobre 2019 la giornata di formazione sugli ACEs (ACEs, Adverse Childhood Experiences, Anda et al. 2006) tenuta dal Prof. Benedetti° e dalle sue collaboratrici Sara Poletti° e Benedetta Vai°.

Come ha ben evidenziato nel saluto iniziale la Prof.ssa Flavia Valtorta: “Mentre è noto da tempo che le esperienze avverse infantili possono costituire un importante fattore di rischio per lo sviluppo di patologie psichiatriche anche in età adulta, più recente è il riconoscimento del loro ruolo come fattori di rischio per moltissime patologie mediche.“, la portata dell’influenza degli eventi avversi durante l’età evolutiva rispetto alla psicopatologia e alla salute generale è arrivata  solo  con l’accordo condiviso  con il modello ormai noto come bio-psico-sociale (Fassino et al. 2007). Il gruppo di relatori della giornata ha inoltre presentato la ricerca più avanzata su questi argomenti, utilizzando un approccio scientifico innovatore in grado di collegare esperienze psicologiche a modificazioni nel programma di sviluppo biologico del cervello e dell’organismo in generale. Si comincia quindi a intravedere e a comprendere l’interazione tra geni, ambiente ed esperienze in termini neurobiologici; riprendendo ancora la presentazione della Prof.ssa Valtorta: “Tale interazione in definitiva definisce la nostra vita nella sua unicità..”. L’esistenza di una vulnerabilità biologica e di una predisposizione alla psicopatologia si accompagna allora alla considerazione di un ruolo fondamentale dei fattori psicologici e sociali nella comparsa immediata o successiva di un’alterazione dello sviluppo neurobiologico.

Il contributo del Prof. Benedetti e delle più giovani colleghe ha sottolineato che negli ultimi anni le ricerche mostrano quanto eventi di vita particolarmente difficili, vissuti in età infantile, abbiano un impatto a lungo termine anche sull’insorgenza di malattie mediche, oltre che sull’adozione di comportamenti a rischio da parte degli individui, dall’infanzia all’età adulta come già avevano intuito Pinel (Woods e Carlson 1961), Janet (1907) e poi Bowlby (1984). Già in passato quindi diversi studi di ricerca psicologica hanno sostenuto che la biografia dei pazienti e il background dei loro genitori andavano indagati in modo approfondito. Per esempio, in alcune famiglie isolate di basso ceto sociale l’incesto sembra trasmettersi di generazione in generazione (Van Stolk e Frenken, 1986). Un’analoga forma di trasmissione è stata descritta per quanto riguarda la violenza sui bambini e la mancanza di cure nei loro confronti. Nello Studio di Delozier (1982) si evidenziava che quasi tutte le madri che maltrattano i figli hanno avuto una biografia di attaccamento ansioso. Sono madri che raccontano di essere state molto spesso minacciate dai genitori di separazione o di violenza fisica e, nella maggior parte dei casi, di essere state per i genitori figure importanti di attaccamento. In Olanda, Kolk (1988) ha mostrato come biografie di attaccamento ansioso possano influire sugli atteggiamenti e i comportamenti nell’allevare i figli e provocare in questi ultimi fobie quali l’agorafobia e la fobia della scuola.

Alle stesse conclusioni hanno portato i primi dati provenienti dalla ricerca epidemiologica degli anni ’70 (Brown & Harris, 2012) e dall’ “ACE Study” che dal 1994/5 costituisce una delle più ampie indagini epidemiologiche a livello internazionale ancora in atto.

In tempi più recenti si è riusciti ad evidenziare che la plasticità cellulare e la modulazione neurobiologica sono oggetto di continue trasformazioni indotte anche da fattori ‘danneggianti ‘ prodotti da relazioni primarie e/o da ambienti disadattivi che facilitano l’insorgenza non solo di patologie psichiatriche ma anche di patologie mediche. Ovvero ai fattori genetici, ereditari e costituzionali, insieme a quelli endogeni epigenetici vanno aggiunti sia i fattori psicologici -intesi non solo come prodotto di eventi traumatici tout court, ma anche come conseguenza di attaccamenti disfunzionali durante la crescita- sia quelli sociali, costituiti dall’ambiente interpersonale, extra familiare e culturale.

Ma qual è la correlazione tra gli ACEs, le malattie fisiche e/o l’adozione di comportamenti a rischio-quali per es. la dipendenza da sostanze, l’abuso di cibo, i disturbi comportamentali? La giornata ha illustrato come la correlazione tra ACEs e malattie in generale potrebbe essere spiegata ricorrendo a diversi meccanismi: alcuni di natura più squisitamente psicologica agenti sullo sviluppo socio-emozionale del bambino, altri di natura neurobiologica attraverso l’azione dello stress e dei suoi effetti sulla maturazione cerebrale, sull’apparato neuroendocrino, immunitario e neurotrasmettitoriale. Le esperienze sfavorevoli infantili sembrerebbero comportare uno stress precoce e comporterebbero un rilevante fattore di rischio per moltissime patologie mediche: soprattutto, ma non solo, per disturbi cardiaci, per malattie polmonari croniche, per epatopatie, per malattie autoimmunitarie.

Per quanto riguarda i disturbi psichiatrici, i dati emersi indicano che la depressione e i tentati suicidi risultano correlati, in percentuale rilevante (oltre il 50% dei casi) alle ACEs, così come il PTSD, il disturbo borderline di personalità, i disturbi dissociativi e le allucinazioni (Chapman, 2004; Whitfield, 2005).

Due processi fondamentali appaiono essere influenzati negativamente dall’abuso infantile e dalla trascuratezza, così come dalle ACEs in generale: il neurosviluppo (la crescita fisica e biologica del cervello, dei nervi e del sistema endocrino) e lo sviluppo psicosociale (la formazione della personalità, che include morale, valori, condotte sociali, capacità di avere relazioni con gli altri, rispetto per le istituzioni sociali etc).

Molti studi ci permettono quindi di affermare che anche le reazioni emozionali possono determinare numerosi processi neurofisiologici e modificazioni somatiche (Lekander & Mats, 2002). La disregolazione emozionale prodotta dagli ACEs indurrebbe quindi alterazioni neuroendocrine e neuroimmunologiche e sarebbe alla base dell’insorgenza anche di patologie somatiche.

 

Dott.ssa Olivia Ninotti –  Neuropsichiatra Infantile, Psicoterapeuta SISPI, Direttrice Sanitaria AIAS di Milano Onlus

 

Relatori della giornata formativa:

Prof. Francesco Benedetti – Psichiatra, specialista in psicologia clinica, capo dell’Unità di Psichiatria e Psicobiologia clinica Ospedale San Raffaele di Milano

Dott.ssa Sara Poletti – Psicologa sperimentale, Ricercatore in fisiologia umana (Università Vita-Salute San Raffaele)

Dott.ssa Benedetta Vai – Psicologa clinica e Ricercatore (Fondazione Centro San Raffaele), Docente (Università Vita-Salute San Raffaele)

Saluto in apertura giornata formativa:

Prof.ssa Flavia Valtorta – Direttore della Divisione di Neuroscienze dell’Istituto Scientifico San Raffaele, Preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Vita-Salute San Raffaele

 

BIBLIOGRAFIA:

Anda R.F., Felitti V.J., Bremner J.D., Walker J.D., Whitfield C.H., Perry B.D., Giles, W.H. The enduring effects of abuse and related adverse experiences in childhood. European archives of psychiatry and clinical neuroscience, 2006.

Bowlby, J. (1984). Violence in the family as a disorder of the attachment and caregiving systems. The American Journal of Psychoanalysis, 44(1), 9-27.

Brown G.W., Harris T. Social origins of depression: A study of psychiatric disorder in women. Routledge, 2012.

Chapman D.P., Whitfield C.L., Felitti V.J., Dube S.R., Edwards V.J., Anda, R.F. Adverse childhood experiences and the risk of depressive disorders in adulthood. Journal of affective disorders, 2004

Delozier P.P. (1982), Attachment theory and child abuse, in C.M. Parkes, J. Stevenson-Hinde (a cura di), The place of attachment in human behavior,London, Tavistock publications

Fassino S., Daga G.A., Leombruni P. Manuale di psichiatria biopsicosociale. Centro scientifico, 2007.

Kolk A.A.M. (1985), De transgenerationale overdracht van angstige gehechtheid, in L.G.M. Bisschops (a cura di), Wat bindt een kind?, Velthoven, De Sprankel

Janet P. Les medications psychologiques. Fèlix Alcan, 1919.

Lekander, Mats. Ecologicallimmunology: The role of the immune system in psychology and neuroscience. European Psychologist, 2002

Stolk B van, Frcnken J (1986), ‘”Als kind met de kinderen’,  Maandblad voor Geestehjkevolksgezondheid, 7/8, 691-724

Whitfield C.L., Dube S.R., Felitti V.J., Anda, R.F. Adverse childhood experiences and hallucinations. Child abuse & neglect, 2005

Woods E.A., Carlson E.T. The psychiatry of Ph. Pinel. Bull Hist of Medicine, 1961.

Sessualità e affettività nella disabilità cognitiva e complessa

Dott.ssa Olivia Ninotti, Neuropsichiatra Infantile, Psicoterapeuta SISPI, Direttrice Sanitaria AIAS di Milano Onlus.

 

Al Congresso CRL della Aias Lombarde “Dalla diversità alla diversa abilità” che si è tenuto il 18/11/2017 ho voluto sottolineare nella relazione il concetto di come i bisogni affettivi e sessuali siano uguali per le persone disabili anche se è necessario una rimodulazione differente e ‘individualizzata’ rispetto al modello sociale dominante normotipico.

Quali sono infatti le problematiche più ricorrenti che si riscontrano per quanto riguarda il rapporto tra disabilità e sessualità? Primo, la sessualità e l’espressione sessuale delle persone disabili continua ad essere controversa e gravida di pregiudizi (Wolfe, 1997). Vi sono barriere di natura attitudinale GENERALE ossia atteggiamenti e comportamenti di familiari, operatori e specialisti che denotano una tendenza a disconoscere o misconoscere il diritto all’espressione di una naturale, in senso di biologica, sessualità da parte delle persone con disabilità complessa. La persona disabile viene visto come l’eterno bambino, come asessuale   o riconosciuto nella sua sessualità e affettività solo nei comportamenti problema.

Vi sono poi barriere di tipo attitudinale SPECIFICO: adolescenti disabili hanno meno contatto con i compagni al di fuori del contesto scolastico e/o familiare con la conseguenza che anche nella fase successiva della vita le persone con disabilità usufruiscono di una rete sociale di supporto e di relazioni amicali ed affettive decisamente meno estesa e gratificante rispetto a quella delle persone non disabili (Krauss, Seltzer e Goodman, 1992).

Ma ..

La definizione aggettivale e quindi esclusivamente qualificativa di disabilità è un cappello enorme, all’interno del quale esistono tutta una serie di variabili e tutta una serie di mondi.

Innanzitutto: disabilità fisica o disabilità ‘mentale’? Nel caso della persona con disabilità fisica siamo di fronte ad una “incapacità di fare”. Nel caso di quella con disabilità cognitiva e/o complessa si tratta di una “incapacità nella responsabilità di fare” con livelli di gravità e di competenza diversi.

Le donne con disabilità cognitiva e/o complessa possono essere maggiormente e in generale esposte al rischio di subire un abuso perché hanno minori possibilità di difesa sia dal punto di vista fisico sia dal punto di vista emotivo-relazionale.

Un ‘ ulteriore difficoltà per loro è quella della contestualizzazione e del conseguente riconoscimento dell’abuso subito. Dall’altra parte, esperienze avverse nell’infanzia (ACE) come abusi fisici, psicologici, sessuali, trascuratezza materiale e disfunzionalità familiari hanno effetti psicobiologici anche sullo sviluppo cognitivo e possono portare alla strutturazione di un disabilità intellettiva oltre che alla comparsa di patologie psichiatriche ( Am J Prev Med,1998 e 2006;Benedetti F., 2017).

La stessa convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità, approvata nel 2007 e successivamente ratificata in Italia, sia con un esplicito riferimento all’esercizio della sessualità sia indirettamente, riconosce ripetutamente in diversi articoli, a livello di obblighi generali, di diritto alla casa ed alla famiglia, di diritto alla vita, di libertà, di inclusione, di vita indipendente, di educazione e di salute, la necessità di non discriminare le persone con disabilità per quanto riguarda il pieno godimento dei propri diritti, definendo una base etico giuridica agli interventi che sostengono l’educazione e la tutela della sessualità umana anche per le persone disabili.

Affermare dunque l’importanza del sostegno all’affettività e alla sessualità nelle persone disabili attraverso una cultura del ‘differente’ che però garantisca gli stessi diritti pur declinati nell’individuale diventa doveroso dal punto di vista etico, legislativo ma anche tutelante il benessere psicofisico.

La sessualità è un istinto innato legato infatti a due dimensioni fortemente intrecciate: una rimanda alla relazione, al desiderio di incontro e scambio globale, ai sentimenti d’amore e d’affetto (componente relazionale); l’altra a componenti quali la genitalità, l’erotismo, la corporeità, la ricerca del piacere (componente fisica).

Concetto chiave dello sviluppo di un’affettività e sessualità competenti è trasformare i bisogni in desideri, poiché il desiderio implica un impulso volitivo, modulabile nel tempo e nello spazio diretto a un oggetto esterno specifico e il desiderio implica esso stesso l’immaginazione e l’affettività.

Ma la sessualità disabile è poco “normalizzabile”, in quanto non allineabile ai modelli dominanti.. L’esercizio della sessualità disabile viene quindi relegata ad una dimensione “cover” solo della componente fisica, al di fuori della relazionalità, in stretta associazione persino logistica con le pratiche di confine dell’igiene personale, delle funzioni corporee, del massaggio. Oppure viene vista solo nella sua presunta modalità infantile e fisica e quindi percepita come ‘comportamento problema’ perché «troppo relazionale» e relegata al controllo farmacologico o alle tecniche di rieducazione e spostamento del sintomo.

Poiché lo sviluppo relazionale-sociale e poi sessuale cominciano nel corso dell’infanzia e progrediscono nel corso della vita, le persone con disabilità devono poter essere aiutate a muoversi verso la maturità sociale e sessuale e necessitano di opportunità ed occasioni per sviluppare le amicizie e le relazioni.

Ovvero la sessualità va insegnata e appresa attraverso l’affettività sin dall’infanzia attraverso la famiglia, la socializzazione e le relazioni. La sessualità dunque non è secondaria rispetto ad altri aspetti, come l’integrazione scolastica, sociale e l’inserimento lavorativo. Lavorare sulla sessualità non può prescindere dal lavorare su tutti gli aspetti della personalità a seconda dello sviluppo cronologico e cognitivo.

Diventa importante anche programmare delle visite ginecologiche e andrologiche, esattamente come avviene nell’adolescenza ‘normotipica, e caldeggiare una formazione degli operatori sanitari specialistici, perché visitare una persona con una disabilità complessa richiede spesso una collaborazione multidisciplinare e un ‘saper ‘ e un ‘saper fare’ capace sugli aspetti comportamentali.

Il supporto invece alla sessualità nella disabilità complessa grave si rivolge soprattutto ai caregivers attraverso counseling o percorsi psicoterapeutici anche prima del sopraggiungere della pubertà del figlio/a e al contesto extrafamiliare (quando possibile) attraverso formazioni ad hoc.

Quando emergono comportamenti sessuali inappropriati come un aspetto poco curato, scarsa igiene personale, mancata acquisizione del senso comune del pudore sociale, interessi specifici e ossessioni-compulsioni sessuali, indifferenziata o promiscua scelta del partner, stalking, poca capacità di riconoscere o rifiutare un’interazione sessuale non gradita, va sempre considerata quale sia la causa o le concause sottostanti alla problematicità rilevata. Spesso infatti i ‘comportamenti problema’ di tipo sessuale sono sintomi di difficoltà più sommerse che riguardano la cognizione, l’affettività e l’emotività.

In particolare in molte disabilità complesse e soprattutto nei disturbi dello spettro autistico l’affettività ha un’espressione percettiva, ovvero la particolarità dell’attaccamento risulta ‘guidato’ dall’ ipo o ipersensorialità recettiva. Nel libro di Hilde De Clercq «Il labirinto dei dettagli» Thomas, il figlio dell’autrice, è un bambino autistico:si fida delle donne bionde con la coda di cavallo come la sua mamma; quando il nonno va via, lo saluta solo se viaggia nella macchina verde: “Quando Thomas ancora non guardava, selezionava già un odore, magari il mio profumo, e gli attribuiva, secondo noi, un significato esagerato..”

Disturbi nell’emotività e nell’empatia sono altrettanto comuni in molte disabilità intellettive e nei disturbi dello spettro autistico.

Le emozioni, soprattutto negative, sono vissute allora in modo confuso e auto-eteroagite; quelle positive possono esprimersi con scariche eccitatorie, manierismi o comportamenti sessuali ossessivo-compulsivi. Vi è in questi casi l’attivazione della modalità preverbale per esprimere le proprie emozioni proprio per un deficit di mentalizzazione degli stati emotivi. Spesso la comprensione dell’emotività propria e altrui non si evolve “naturalmente” ma deve essere appresa nei suoi aspetti “cognitivi-affettivi”. Diventa quindi fondamentale aiutare i ragazzi a farsi un’idea concreta (non intuitiva) di quello che gli altri pensano, sentono, provano, a regolare le proprie emozioni e ad imparare le regole e le distanze sociali.

Più a monte ancora, nella sviluppo della sessualità nella disabilità, va contrastata culturalmente l’infantilizzazione o il pregiudizio di ‘non competenza a priori’. I ragazzi con disabilità fin in epoca precoce e in modo individualizzato devono essere sostenuti all’autonomia personale, nella cura di sé e nella gestione delle relazioni. Nello stesso tempo, va contrastata anche la risposta sociale “positiva” o compiacente a comportamenti inadeguati per l’età, quali abbracciare gli estranei o baciarli.

In conclusione, la sessualità è un comportamento appreso che nasce da un istinto.

E’ quindi un apprendimento che nasce da lontano, da quando si è piccoli, prendendo consapevolezza della propria identità e ruolo di genere fino all’orientamento sessuale e alla capacità di stare con gli altri in modo adattativo.

In quest’ottica tutte le persone (con disabilità o meno e nella loro diversità) dovrebbero essere accompagnate sin dall’infanzia a trasformare i bisogni in desideri perché possano realizzarli in autodeterminazione e in relazione con.

 

BIBLIOGRAFIA

  • «ACE The adverse childhood experience study», Am J Prev Med 14:245-258,1998 e 160:1453-1460,2006
  • Benedetti F., “L’impatto delle esperienze infantili avverse sulla salute e sulla malattia “, 2017
  • Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità, 2007
  • De Clercq H. « Il labirinto dei dettagli»,Erickson,2006
  • Krauss M., Seltzer MM., Goodman SJ. “Social support networks of adults with
  • mental retardation who live at home”, Am J Men Retyard 1992; 96: 432-44
  • Wolfe PS. “The influence of personal values on issues of sexualty and disability”,Sex Disabil. 1997, 15: 69-91

Il corpo porta il mondo nel cervello e il cervello guida il corpo nel mondo

RIVISTE ERICKSON

Logopedia e comunicazione

Vol. 13, n. 3, 2017

Studi
Maria Luisa Gava Lia Mastrogiacomo Olivia Ninotti Elisabetta Roca
Il corpo porta il mondo nel cervello e il cervello guida il corpo nel mondo
DOI: 10.14605/LOG1331703
Il presente lavoro illustra il percorso riabilitativo integrato tra trattamento logopedico e l’approccio c.m.i.® (cognitivo-motivazionale-individualizzato) in un bambino di 8 anni affetto da una patologia neuro-cognitiva con conseguenti difficoltà comunicativo-linguistiche. Viene evidenziato come un lavoro di orientamento alle dimensioni del mondo reale (spazio, tempo, relazioni e oggetti) possa aiutare a stabilizzare e fare evolvere, mediante punti di riferimento, le conoscenze del bambino. Occorre sottolineare come la componente linguistica (in comprensione e in produzione) ne abbia tratto giovamento e la capacità di manipolare il proprio vissuto (ricostruito tramite elementi grafici mobili) abbia permesso al bambino di analizzare meglio i vari contesti, favorendo il linguaggio verbale.

Di seguito il link a cui trovare l’articolo per intero:

 

Deglutizione Atipica e Terapia Miofunzionale (di Emanuela Cedone)

Se il tuo bambino ha la lingua che fuoriesce dai denti quando deglutisce o non pronuncia bene alcuni fonemi (es :
/s/, /z/ /ʃ/, /ʣ/, /ʦ/, /ʧ/, /dʒ/) e la lingua si interpone tra i denti , oppure la lingua è in posizione anteriore e gli incisivi sembrano quelli del coniglietto e sporgono in fuori dalla bocca, è meglio fare un controllo logopedico ed ortodontico per valutare se ha una deglutizione “infantile” causata molto probabilmente: dall’uso protratto del biberon o del ciuccio;da abitudini viziate, come il succhiamento del pollice e il rosicchiamento delle unghie;da affezioni del cavo nasale, come riniti ricorrenti o croniche, sinusiti, ipertrofia delle adenoidi o dei turbinati che portano il bambino a respirare a bocca aperta impedendo la corretta chiusura delle arcate dentarie e obbligando la lingua a stare in basso e a muoversi in avanti ad ogni atto deglutitorio.

Solitamente Il passaggio dalla deglutizione infantile a quella adulta,avviene autonomamente e intorno ai 18-20 mesi inizia il graduale passaggio dalla deglutizione infantile a quella di tipo adulto. Ma non ci si deve allarmare perché è possibile correggere queste abitudini viziate e la posizione corretta della lingua durante la deglutizione (un processo neuromuscolare articolato e complesso che consente la progressione ed il trasporto del bolo alimentare, liquido e solido dalla cavità orale verso le vie digestive inferiori ) con un TERAPIA MIOFUNZIONALE che rieduca la funzione muscolare dell’apparato bucco linguo facciale che permette la respirazione e la deglutizione corretta e automatizzata comportando il raggiungimento di un buon funzionamento del sistema orale nell’attesa del completamento della dentatura e dello sviluppo evitando, un peggioramento e una malocclusione. La terapia miofunzionale è indicata nei pazienti in crescita (bambini dai 6/7 anni fino all’età adolescenziale) ed è necessaria una collaborazione del bambino e della famiglia sia durante le sedute che a casa con esercizi mirati
ma molto semplici e con pochi strumenti . Il trattamento rieducativo logopedico deve essere affiancato ad un
trattamento ortodontico o otorinolaringoiatra. Il trattamento dura circa 8/10 incontri mono – settimanali e gli esercizi assegnati andranno ripetuti a casa tutti i giorni , si effettueranno dei controlli nei mesi successivi per verificarne l’automatismo.

L’Arcobaleno delle strategie

Inizia a settembre il Doposcuola Specializzato per ragazzi con DSA, in collaborazione con Anastasis, L’Arcobaleno delle strategie.
Il doposcuola ha la finalità di fornire ai ragazzi strumenti utili per favorire l’apprendimento in autonomia
attraverso attività di gruppo sperimentando strategie nuove e funzionali, rafforzando l’autostima e la
percezione di autoefficacia. I ragazzi avranno a disposizione un computer e gli strumenti compensativi (software Anastasis)e saranno guidati da figure specializzate nei DSA. I ragazzi lavoreranno sui loro compiti con l’obbiettivo di capire come affrontarli nel modo più  economico in termini di tempo e di fatica imparando  un metodo di studio efficace.

Modalità e tempi: 1 volta alla settimana per 1 ora e mezza.

Chi può partecipare: bambini e ragazzi con DSA dalla 4° primaria al biennio della scuola secondaria di secondo grado (divisi per fascia scolastica).

Attività di gruppo con un massimo di 3 partecipanti sotto supervisione di 2 operatori

Ad ogni partecipante Anastasis riserverà uno sconto del 20% sull’acquisto dei software.

Referenti del progetto:

Dott.ssa Emanuelea Cedone, Logopedista, tel: 3397634345
Dott.ssa Monica Scuratti, Psicologa, tel: 33823886884

Mail: arcobalenoDSA@gmail.com

Fai la nanna o no? (di Olivia Ninotti)

“Mio figlio non dorme.”

“Mio figlio si sveglia dieci volte per notte.”

“Mio figlio è un piccolo sadico.”

E’ statisticamente provato che il sonno di un adulto medio diventato genitore si riduca in quantità e qualità nei primi tre anni di vita del bambino. Ma finchè non si prova, non si comprende appieno la portata emotiva e cognitiva di questa riduzione.

In realtà noi adulti tendiamo ad adultizzare. Ci aspettiamo cioè che un bambino sia più o meno velocemente un essere umano come lo siamo noi, in particolare nel ciclo sonno/veglia. Deve dormire quando è buio o quando abbiamo sonno noi o quando decidiamo che è stanco.

E invece no.

Esistono due stadi principali nel sonno: il sonno paradosso o REM (REM: rapid eyes movements = movimenti veloci degli occhi) e il sonno non-REM. Alla nascita la fase REM occupa circa il 50% del tempo dedicato al sonno. Questa percentuale si riduce poi molto progressivamente per raggiungere, in età adulta, dal 18% al 25% del tempo di sonno totale. Il sonno REM è caratterizzato da un’intensa attività cerebrale, simile a quella dello stato di veglia, la respirazione e il battito cardiaco diventano irregolari e si rilevano dei rapidi movimenti oculari. La fase REM è correlata ai sogni. Il sonno non-REM è caratterizzato invece da 4 stadi che vanno dall’assopimento (1) al sonno superficiale (2), sino al sonno profondo (3-4). Durante la fase di sonno profondo, il respiro e il battito cardiaco sono regolari, l’attività cerebrale tranquilla, il corpo è rilassato e immobile.

In pratica, nel primo anno di vita il bimbo sembra che dorma placido, invece sogna molto e attraverso il sognare apprende e probabilmente immagazzina e elabora le esperienze sensoriali –cognitive ed affettive della vita da sveglio.

E’ vero quindi che il sonno è essenziale per lo sviluppo del bambino perché durante il sonno il corpo ed il cervello del piccolo continuano a svilupparsi e si pongono le basi per il suo sviluppo mentale, ma nostro figlio non lo sa.

E’ vero poi che il sonno fisiologicamente si trasforma con l’età, addirittura nel corso dei mesi ,e questo invece dobbiamo saperlo noi.

Vediamo cosa succede nel primo anno.

1-3 mesi: un bambino può dormire 15/16 ore, suddivise tra il giorno e la notte. Si sveglia per mangiare o se ha del gas nel pancino. Forse può svegliarsi anche per quelli che noi chiamiamo brutti sogni. Il tutto è molto random. Cosa si fa ? Ci si alza come zombie e si va di tetta(se si è la Madre),biberon(se si è anche padre)e/ o dondolio infinito(ogni bambino preferisce un tipo di movimento: dal ritmico, al sobbalzante, al contenitivo e basta..).Quante volte? A bisogno.

4-6 mesi: il bimbo dorme anche otto ore per notte e noi genitori allora pure. In generale, non si dice niente per scaramanzia. Chi si vanta: ‘Mio figlio dorme tutta la notte’ scatena per punizione divina la dentizione del bambino e finisce la pacchia.

6-9 mesi: solitamente diminuisce la quantità di sonno diurno(di solito riposino al mattino e dopo pranzo) e iniziano periodi notturni in cui il bimbo dorme tranquillo e altri in cui si sveglia anche dieci volte, soprattutto nella prima parte della notte. Dentizione? Inizio dello svezzamento e quindi difficoltà digestive? Malattie? La mamma ha ripreso a lavorare e il bimbo la vuole? Ha iniziato a gattonare e sogna di precipitare nel vuoto? Ha sete? Chi lo sa. Cosa si fa? Stessa cosa del primo trimestre. Ci si alza e si prova con tetta, biberon, dondolio, canzoncina. Dei genitori disperati mi hanno raccontato di utilizzare il metodo city-car cioè: alcune volte prendono sù il figlio urlante, lo piazzano in macchina e girano per la città finchè al terzo incrocio il piccolo si addormenta. E’ un metodo che sconsiglio, non fosse altro per il prezzo della benzina.

In questo penultimo trimestre introdurrei invece l’oggetto transizionale: un piccolo peluche o un oggetto morbido, meglio con l’odore della mamma o del papà ,che suoni o canti o non dica nulla, l’importante è che il bambino possa averlo vicino a sé nel lettino fin dal momento dell’addormentamento. Sembra funzioni e si capisce perché il metodo city car sia pericoloso. Se l’oggetto transizionale diventa l’automobile, l’unico modo per farlo addormentare in alternativa è mettere nel lettino un pneumatico o un Alber Magic. Un po ’ tossico.

Nel corso del secondo-terzo anno di vita, la maggior parte dei bimbi necessita in media di 13-14 ore di sonno concentrate principalmente di notte e rimane un solo riposino nel corso del pomeriggio.

Due studi condotti in Germania rivelano che il 21% dei lattanti di 5 mesi e dei bambini di 20 mesi ha dei problemi a dormire ininterrottamente durante la notte, mentre all’età di 5 anni il 13% dei bambini ancora si sveglia durante la notte. A 56 mesi il 12% dei bambini ha dei problemi ad addormentarsi, mentre un bambino di 4-5 anni su quattro dorme insieme nel letto con i genitori. Il sonnambulismo e gli attacchi di paura durante la notte invece vengono riportati dai genitori solo nel 14% dei casi( Lehmkuhl G, Fricke-Oerkermann L, Wiater A. Schlafstörungen in Kindersalter und ihre Behandlung. Kinderkrankenschwester 2007; 26: 254-257)

Questi dati sottolineano che il sonno dei giusti non appartiene sempre ai genitori, soprattutto nel primi anni. Ma è anche vero che ci sono delle regolette da seguire per fare in modo che il sonno dei nostri figli(e di conseguenza nostro)sia giusto:

  • Sperimentare una BUONA DIPENDENZA è la base per lo sviluppo di una SANA AUTONOMIA nel presente e nel futuro.

Il bambino deve imparare a dormire da solo dopo essere passato da continue esperienze di dipendenza fiduciosa .Il piangere per la fame, la sete, per le coliche, i denti o per paura e sapere che ogni volta arriva qualcuno che consola e se ne va, insegna che si può rimanere serenamente da soli. Se poi ogni tanto ci portiamo il bimbo nel lettone, non è la fine del mondo, è sopravvivenza. Se ce lo portiamo sempre ,può essere interessante sapere che ci sono un sacco di altri modi per suicidare una coppia senza dormire scomodi.

  • Dare routine di orario e abitudini

La nanna è un momento che dovrebbe avvenire quanto più possibile allo stesso orario , in un ambiente accogliente ed effettuato dalla stessa figura(madre o padre). I rituali, le abitudini, i soliti rumori e odori diventano parte integrante dell’accompagnamento al sonno. Ci sono bambini piccoli che hanno bisogno del silenzio assoluto ,altri di rumori familiari di sottofondo (la tv accesa in sala, i fratelli che gridano nell’altra stanza..)e altri che si addormentano ovunque scattata l’ora x a cui sono abituati. Il concetto fondamentale è proprio dare una cornice stabile, almeno nei primi tre anni. Io ho due gatti che se c’è disordine in casa, di notte incominciano a picchiarsi. Non ho mai capito se il disordine li disturbi psicologicamente o fisicamente. Di fatto sono costretta a mettere a posto tutto prima di andare a letto.

Questo per dire che ho sempre trovato i bambini piccoli simili ai gatti.

  • Ciò che succede di giorno influisce di notte

Momenti specifici possono generare ansia nel bambino sin da piccolo :un recente periodo di malattia o una in corso oppure l’ingresso al nido; come anche le fasi evolutive possono di giorno entusiasmare il bimbo e di notte agitarlo. Una sempre maggiore autonomia crea l’ansia da separazione e torniamo quindi al primo punto. Per i genitori è lo stesso :ci sono momenti della nostra vita in cui siamo più stanchi o nervosi e neanche a farlo apposta saranno quelli in cui nostro figlio si sveglierà di più. Conosco genitori che vivono il momento della nanna come quello più faticoso della giornata e più lungo o perché il bimbo non si addormenta in tempo zero( ma anzi sembra caricarsi a molla) o perché finge di addormentarsi per poi svegliarli a tappe di notte come una via crucis infinita.

In conclusione, credo che la regola d’oro sia cercare di non associare il momento del sonno con esperienze negative. Questo vale sia per il bambino sia per i genitori.

Un giorno nostro figlio crescerà e magari ci mancheranno le sue comparsate nel lettone, perché saremo alzate in cucina in piena notte ad aspettarlo che torni in macchina da chissà dove…